26.4.11

Mi manca la "i" (vaneggio misto a nostalgia delle lettere che non ci sono più)

Lo ammetto senza troppi problemi: sulla lingua italiana, la mia posizione è classicista. Va bene che le lingue sono vive e si evolvono, ma tutto sommato a me piace mantenere la forma corretta fino all'ultimo, anche quando la forma 'scorretta' si è ormai affermata. Quand'ero più piccola ero incapace di scendere a compromessi (e per questo mi sono ostinata a scrivere provincie fino alla fine del liceo, mostrando già quello snobismo linguistico di cui anche questo post è prova), però crescendo mi sono addolcita: mi sembra normale che la lingua si evolva verso la semplificazione, per cui se la regola del -cia dice che consonante+cia al plurale perde la i, provincia avrà anche un'etimologia tale per cui la i dovrebbe restare pure al plurale, ma si può tranquillamente farne a meno. Se no non se ne esce più!

(Con questa vocazione linguisticamente così bacchettona, temo fosse scritto che sarei finita nel magico mondo dell'editoria, anche se non in una redazione).

Dicevo della i,  e non a caso, perché quand'ero piccola avevo un sacco di dubbi proprio su questa lettera e sulla sua presenza: ci sono troppe parole in cui c'è ma è come se non ci fosse, e mi è sempre sembrato non ci fosse logica. Perché sufficienzascienza ce l'hanno, e adolescenza no? Va bene l'etimologia, ma si finisce nel regno dell'eccezione e per uno che impara l'italiano è un inferno.

Quando mi hanno insegnato la regola del -cia e -gia (al plurale la i resta solo se -cia o -gia sono preceduti da una vocale, per cui si ha valigiavaligie ma gocciagocce), metà dei miei dubbi se ne sono andati. E con l'abitudine un'altra buona percentuale - a furia di scrivere, certe parole diventano automatiche, come se la mano conoscesse l'ortografia più della testa.

Qualche dubbio mi era rimasto sui verbi.
Al liceo, io e una mia compagna eravamo stupite che la maestra del fratello di un nostro amico insistesse su sogniamo e insegniamo, per fare entrare nella testa dei suoi alunni la forma corretta. Gn, come sc, è un suono ingannatore: sentiamo la i, ma non sempre va scritta. Ricordo che ne parlai a mio padre, e la sua risposta mi fulminò: "Non puoi mai perdere la -i nella prima persona plurale dell'indicativo presente, la desinenza è -iamo."  Semplice, diretto, sicuro. Avevo risolto un'altra buona percentuale di dubbi sulla i.

Ma poi è arrivato "consegnamo". L'ho visto prima sui pacchi dei rotoli per asciugarsi le mani in ufficio: "Consegnamo igiene" (le i di igiene però ci sono tutte). Poi l'ho visto sui baracchini che vendono fiori: quelli che fanno consegne a domicilio in genere hanno stampato, direttamente sulla tendina verde che sovrasta il baracchino, "Consegnamo piante". Peggio ancora: in una riunione mi è capitato di veder presentato un libro dal titolo Disegnamo con i gessetti - quando ho segnalato che c'era un errore nel titolo, è stato cambiato: non si è ripristinata la forma corretta, disegniamo, perché con la i risultava strana e si temeva passasse per un refuso. (No, non sto scherzando).

Ora, io posso tranquillamente scrivere province (anzi, ormai la forma con la i mi suona sbagliata), ma faccio molta fatica a rassegnarmi alla dipartita della i dalla desinenza del verbo. Nella mia top 3 degli errori grammaticali più difficili da vedere, occupa senz'altro il numero 1. (Seguono qual'è invece di qual è - esiste il troncamento, non solo l'elisione - e invece di po' - esistono le elisioni, non solo gli accenti -.

So che mi devo rassegnare, le lingue sono vive e si evolvono, e la semplificazione cui tendono passa anche per . Però mi illudevo che almeno l'editoria avrebbe difeso più a lungo la forma più corretta, quella per anni ritenuta l'unica. E invece devo ammettere che mi sbagliavo: nei libri ancora ancora ci si salva (immensamente grazie a tutti i correttori di bozze), ma nelle comunicazioni online mi è capitato di vedere già un buon numero di qual'è. Ma pazienza, forse anche l'ortografia in fondo è questione di gusti: è la parola orale che conta, e se una stessa pronuncia ammette grafie diverse si finirà sempre per cadere sulle più semplici. Altrimenti la lingua è morta.


La I che apre l'articolo viene da qui, l'ha fatta More Monger per Lettercult.
La seconda I è stata fatta da Daniel Holter nel 1987.

19.4.11

Recensione: "In fondo alla palude" di J. R. Lansdale

Quando finite un libro che vi è piaciuto, non siete assaliti anche voi da una sensazione difficilmente definibile, una sorta di stato di sospensione in cui si insinua la domanda: "e adesso cosa leggo?" O magari invece siete lettori precisi, di quelli con una lunga lista di titoli-da-leggere-nel-corso-della-vita e, finito un libro, vi tuffate decisi sul successivo. Io non sono una lettrice ordinata: ho una lista in continua espansione di titoli che voglio leggere, ma la dimentico sempre nel momento del bisogno. Così, quando sabato ho finito In fondo alla palude di J. R. Lansdale, la domanda è arrivata puntuale. Ho chiuso il libro e mi sono chiesta: "E adesso?" Perché In fondo alla palude mi è piaciuto, ha totalmente assorbito la mia attenzione per due giorni: non riuscivo più a staccarmene, ho dovuto finirlo. Non potersene separare è una buona dote per un thriller. Però questo non è solo un thriller, è molto di più. Un romanzo di formazione, nel senso migliore, arricchito da una trama da thriller.

Ambientato in Texas, negli anni Trenta, è raccontato in prima persona da Harry che, ormai vecchio, ricorda una serie di misteriosi omicidi a sfondo sessuale in cui si è trovato coinvolto, insieme alla sua famiglia, da ragazzino, quando viveva vicino alle paludi del Texas orientale. Proprio perché il narratore, ormai vecchio, ricorda la sua infanzia, il romanzo è pervaso da una sorta di malinconia per il tempo che è stato, per una stagione della vita, più che per un periodo storico. E il contenuto del libro va ben oltre l'indagine sugli omicidi. Uno dei temi del romanzo è lo scontro tra la comunità bianca e quella nera: l'omicidio di una nera non interessa a nessuno e, finché non si inizia a temere che anche donne bianche possano venire uccise, il padre di Harry, agente di polizia della zona, viene invitato ad abbandonare le indagini. (Inutilmente, perché per lui invece non è il colore della pelle a determinare il valore di una persona).
La storia è vista con gli occhi di un ragazzino, e mescola realtà, fantasia, finzione, desiderio di avventura. Ma questa visione, e la voglia di diventare grande, si scontrano con il mondo degli adulti e le sue regole, che Harry impara a conoscere in tutta la loro violenza e le loro sfaccettature. Altro tema del libro è infatti la scoperta dei propri familiari come persone. Harry si rende conto che la mamma e il papà hanno una vita indipendente dal ruolo di genitori: hanno un passato e prendono decisioni che non sempre sono giuste, e si muovono in un mondo dove esistono leggi non scritte di cui è impossibile non tener conto.
Completa il tutto una galleria di personaggi imprevedibili, come la nonna di Harry, una vera forza della natura, o lo stesso misterioso Uomo-Capra, creatura malvagia che Harry e la sorella hanno visto nelle paludi e sospettano essere l'assassino.
Decisamente una lettura piacevole, un romanzo in cui è bello immergersi.

11.4.11

Recensione: "Non è un paese per vecchi" di Cormac McCarthy

La strada mi era piaciuto così tanto che non potevo aspettare troppo prima di leggere un altro romanzo di McCarthy, e così è venuto il turno di Non è un paese per vecchi. Il film l'avevo visto tempo fa, in un periodo in cui, qualunque cosa guardassi, mi addormentavo dopo mezz'ora. E Non è un paese per vecchi non ha fatto eccezione, cosa che mi ha permesso di leggere il libro con solo un vago ricordo di alcune sensazioni legate al film. Per me è una fortuna, non amo leggere un romanzo lasciandomi condizionare dalla sua trasposizione cinematografica. Non sono un'integralista della parola scritta, ci sono film che ho amato molto di più dei libri da cui sono tratti o a cui sono ispirati (uno su tutti: Jules e Jim), ma preferisco leggere prima di guardare. Quindi ora posso vedere "di nuovo" il film dei fratelli Coen.

Ho iniziato Non è un paese per vecchi la mattina del giorno in cui mio fratello mi ha detto di essere rimasto un po' perplesso dalla Strada. Mi è diventato improvvisamente chiaro che io e mio fratello non abbiamo gli stessi gusti - cosa che ho sempre saputo ma mai seriamente considerato. Non ho potuto che rispondergli che stavo leggendo già un altro romanzo di McCarthy, che mi piaceva forse anche di più e che probabilmente sarebbe piaciuto anche a lui. Perché McCarhty è uno di quei rari scrittori che piega decisamente l'intreccio e le tecniche narrative al tipo di romanzo che ha in mente. Sembrerebbe scontato, ma non lo è. In molti romanzi di uno stesso autore si riconosce non tanto la voce dell'autore stesso quanto una sorta di marchio di fabbrica, di atmosfera comune. Che funziona se si tratta di romanzi simili o che vanno a costituire un'unica topografia fantastica caratteristica di un dato autore (come quasi tutti i libri di Gabriel García Marquéz, per esempio, che divoravo da ragazzina), ma diventa invadente quando i romanzi in questione sono molto diversi. Ecco, McCarthy ha il pregio di far sì che ogni suo libro sia libro a sé, pur facendo riconoscere al lettore un romanzo come suo per questo suo stile così asciutto, essenziale, che per me rasenta la poesia. (Almeno, per la mia limitatissima conoscenza: due romanzi sono pochi per un simile giudizio, me ne rendo conto).
La narrazione della Strada è monotona e alienante, ripetitiva, sembra un racconto archetipico. Non è un paese per vecchi si svolge su piani temporali diversi, luoghi diversi, in contemporanea, seguendo personaggi differenti e lasciandoci quasi liberi di scegliere il nostro protagonista. Perché in Non è un paese per vecchi i protagonisti sono tre, come in Il buono, il brutto e il cattivo. E più o meno hanno anche questi tre ruoli, anche se più che il brutto Llewelyn Moss è solo un uomo qualunque che si imbatte in una spaventosa quantità di soldi. E li prende. Lo sceriffo Bell è il buono. Anton Chigurh è il cattivo, una macchina per uccidere, fredda, spietata. Uno psicopatico assassino che segue una sua rigida filosofia. In omaggio a Bozzetto e al suo West and Soda, e per l'impronunciabilità del nome (qual è la pronuncia di 'Chigurh'?) nei miei resoconti in questi giorni lo chiamavo "il Cattivissimo".

Apro una parentesi: dopo tutti questi riferimenti western, c'è bisogno di dire che Non è un paese per vecchi è un western? Prima ancora di essere un thriller, è un western moderno. Certo, ci sono i pick-up. Ma ci sono anche i cavalli...

Tornando ai protagonisti: lo sceriffo è quello che parla di più, Moss è quello che scappa e Chigurh è quello che insegue Moss e non si fa prendere dallo sceriffo. Quello che non può mai diventare vulnerabile. Quello che dice:

Non stava a me la scelta. Ogni momento della tua vita rappresenta una svolta e una scelta. A un certo punto hai compiuto una scelta. E tutto è andato di conseguenza. La contabilità è precisa. La forma è tracciata. Nessuna linea può essere cancellata. Non credevo assolutamente che potessi influenzare una moneta in tuo favore. Come avresti potuto? La strada di una persona nel mondo cambia raramente, e ancora più raramente cambia all'improvviso. E la direzione della tua vita si vedeva fin dall'inizio.

Non è un paese per vecchi è crudo, amaro.
C'è spazio per due figure femminili, entrambe forti: la moglie dello sceriffo, Loretta, e la moglie di Moss. La prima ingentilisce il libro, a suo modo, perché sembra il genere di persona capace di piegare il destino con la semplice accettazione. E i pensieri dello sceriffo rivolti a lei sono sempre densi di amore o di gratitudine. La seconda invece aggiunge amaro all'amaro, perché non importa se "Be', tesoro, purtroppo sei arrivata tardi. Perché io il mio acquisto l'ho fatto. E mi sa che quello che ho preso me lo tengo": è molto più facile credere alle apparenze.

Non è un paese per vecchi è un romanzo dal ritmo coinvolgente, scritto senza fronzoli, diretto, profondo. Da leggere assolutamente.

Ricetta: bombe alla Nutella

Quando sono presa da mille cose, cucino. Più o meno dall'università, è il mio modo per staccare la spina. Le bombe alla Nutella sono dei biscotti al cacao ripieni di Nutella, della serie "non facciamoci mancare nulla!". Venerdì le ho fatte per regalarle, non per mangiarle io, e siccome mi è stato chiesto di condividere la ricetta, eccola!

INGREDIENTI (per 15 bombe, più o meno)
80 gr di burro
100 gr di zucchero
260 gr di farina 00
50 gr di cacao amaro
2 uova
1 pizzico di sale
1/2 cucchiaino di lievito vanigliato
Nutella in abbondanza (in genere io faccio fuori almeno mezzo vasetto da 400 gr, ma io sono molto golosa!)

Montare in una ciotola con un cucchiaio di legno il burro e lo zucchero, quindi unire farina, sale, uova, cacao, lievito. Lavorare l'impasto fino a formare una palle e poi lasciare risposare. (Se l'impasto risultasse troppo duro e difficile da lavorare, aggiungere un po' di latte, ma poco, non come me che l'ultima volta ne ho messo troppo e poi ho dovuto mettere altra farina per rimediare!)
Staccate dall'impasto dei piccoli pezzi, lavorateli come fossero polpette e poi schiacciateli su una teglia ricoperta di carta da forno.
Mettete un cucchiaio di Nutella (io mi aiuto con due cucchiai, e lo metto solo su metà impasto).
Richiudete il biscotto, schiacciando i bordi in modo che non si aprano.
Io poi li ripiego in su, come nei panzerotti.
In forno a 180° per 20 minuti. Attenzione: possono dare dipendenza!

7.4.11

Ricetta: zuppa di verza, sedano, carote e patate

Eccomi qua con un'altra ricetta a base di verza, l'ultima zuppa della stagione visto che le temperature ormai sono estive (anche se in casa mia ci vuole ancora la felpa: merito dei muri spessi, che la mantengono fresca!). Però la verza era da finire, e dopo la dieta londinese ho disperatamente bisogno di mangiare sano. Almeno, un pochino!

INGREDIENTI
1 verza (senza 8 foglie esterne, usate per gli involtini)
3 patate medie
1 sedano
2 carote
1/4 di cipolla
2 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 l di brodo bollente
cumino
1 crosta di grana o un pezzo di grana (a piacere)
pepe

In una pentola dai bordi alti fate soffriggere la cipolla nell'olio, quindi aggiungete le carote e il sedano fatti a pezzi non troppo piccoli. Mescolate e dopo un paio di minuti aggiungete anche le patate a pezzettini. Se le verdure si attaccano alla pentola, aggiungete un po' di brodo. Mescolate e fate rosolare per 5
minuti. Nel frattempo affettate la verza a striscioline e, passati i 5 minuti, mettetela nella pentola con tutto il resto, mescolando bene. Quindi versate il brodo (deve arrivare quasi a coprire tutte le verdure) e, se vi piace, il cumino - che per me ormai è fondamentale in ogni zuppa! - e il grana.
Abbassate il fuoco, coprite con un coperchio e fate cuocere per 40 minuti.
Passati i 40 minuti, io ho passato tutto con il minipimer - perché a me le zuppe piacciono vellutate, ma è questione di gusti.
Macinate un po' di pepe e servite in tavola!



6.4.11

Ricetta: Involtini di verza (ripieni di carne)

Ho di nuovo in frigo verdure che da sola non comprerei mai. Anzi, peggio: verdure che non so nemmeno come si chiamano! Tutto merito di Hagrid di bioexpress. Hagrid non si chiama Hagrid, ma noi lo chiamiamo così perché il signore che a martedì alternati, all'alba delle 7 di mattina, suona a casa e ci consegna frutta e verdura è grande, grosso e barbuto come Hagrid di Harry Potter.
Con quelle che ho scoperto essere biete da taglio me la sono cavata: le ho fatte bollire e mi sono resa conto che sono quelle che mia madre chiama erbette. Con la verza invece mi sono dovuta ingegnare: non ne avevo mai nemmeno presa in mano una, prima! Anche se la vigilia di Natale a casa mia è tradizione mangiare i casoncelli ripieni di verza, io mi sono sempre limitata a sedermi a tavola e mangiare, non ho mai partecipato alla fase preparativa, quindi la verza era, fino a qualche giorno fa, una semplice sconosciuta.
Ma ora mi ha conquistato! Al momento sto cucinando una zuppa, l'ultima della stagione, con la verza avanzata dall'altra sera, quando ho preparato gli involtini di verza (con ripieno di carne), cercando di ricostruire come dovevano essere fatti quelli che ho mangiato anni fa in un agriturismo in Piemonte. Direi che mi sono avvicinata!

INGREDIENTI (per 8 involtini)
8 foglie di verza (quelle esterne, che sono grosse)
1/2 cipolla
200 ml di passata di pomodoro
2 cucchiai di olio extravergine d'oliva
Per il ripieno:
60 gr di macinato scelto di bovino
60 gr di macinato di suino
1 uovo
parmigiano grattugiato
noce moscata
pan grattato
sale
pepe
8 pezzettini di fontina (potete anche fare senza)

Fate bollire abbondante acqua salata in una pentola e buttatevi le foglie di verza (lavate!): devono diventare morbide, bastano 3 o 4 minuti.
Nel frattempo mescolate in una ciotola la carne, l'uovo, il formaggio grattugiato, il pan grattato, sale, pepe, noce moscata: come se doveste fare le polpette, per intenderci.
Tirate fuori dall'acqua le foglie di verza e scolatele. Quindi procedete a fare gli involtini: appoggiate una foglia su un piatto, disponetevi al centro la carne (l'ideale per me è modellarla 'a salsiccia') e infilatevi al centro un pezzettino di fontina. Quindi arrotolate la foglia di verza come se fosse una sigaretta (un sigaro, meglio) e chiudetela con due stuzzicadenti. Ripetete l'operazione con tutte le foglie.
In una casseruola, fate rosolare in 2 cucchiai di olio extravergine la cipolla affettata finemente, aggiungete metà della passata e adagiate gli involtini sul fondo della casseruola. Aggiungete il resto della passata e fate cuocere per 30 minuti a fuoco basso.
Se il sugo si asciuga troppo, aggiungete un po' d'acqua e mettete un coperchio.
8 involtini sono la dose ideale per 2 persone, se fate piatto unico. Ma possono benissimo funzionare anche come antipasto, e in quel caso la dose è 2 involtini a testa, non di più: sono piuttosto grandi!

4.4.11

Recensione: "La città di Adamo" di Giorgio Nisini

Voglio scrivere questa recensione da prima di partire per Londra. Forse ho fatto passare un po' troppo tempo, ma eccomi qua a parlare di Giorgio Nisini, La città di Adamo, candidato Fazi allo Strega.
Il libro è scritto in prima persona dal protagonista, Marcello Vinciguerra, che gestisce con successo l'impresa agricola ereditata dal padre Vittorio. Sposato con Ludovica, proprietaria di un'enorme negozio di mobili di design, inizia ad allontanarsi da lei e da tutta la sua vita quando vede in televisione, durante un servizio, una ripresa di tanti anni prima di sé bambino insieme al padre a Eurano, cittadina camorristica voluta dal potente e visionario boss Adamo Pastorelli. Marcello, turbato, viene assalito da infiniti dubbi sull'onestà e la rettitudine del padre e comincia a indagare su possibili legami con la camorra.
La trama, sostanzialmente, è tutta qui. Certo, c'è spazio anche per il rapporto con la moglie, ma non è mai davvero esplorato, è più un susseguirsi di dati di fatto a volto piuttosto improbabili.
Il romanzo è chiuso, un po' asfittico. Qua e là affiorano riferimenti a oggetti di desgin (ciascuna delle 5 parti in cui è diviso il libro ha come 'sottotitolo' un particolare oggetto), qua e là l'autore fa sfoggio in modo un po' troppo pedante e un po' troppo didascalico della propria cultura, come quando parla dell'intervista di Emmer a Fellini (che dovrebbe essere una cosa che viene in mente al protagonista, ma somiglia più a una paginetta informativa) oppure in passi tipo:

Tante volte mi ero chiesto perché i genitori di Brenno Fontana lo avessero chiamato così, come il celebre capo dei Galli Senoni che saccheggiò Roma nel quarto secolo avanti Cristo. Era una cosa davvero curiosa, e non tanto perché quel condottiero barbaro era stato un nemico dei nostri antenati...

Certi punti di questo paragrafo mi ricordano le ricerche che si fanno alle medie. E per di più la ragione non viene spiegata (si millanta un riferimento a un nome inciso in un monumento ai caduti, il barbaro non c'entra nulla!)

L'apice dello sfoggio di cultura per me lo si raggiunge a p. 198, quando Marcello, chiedendosi da dove mai possano venire due nomi scritti dietro una vecchia fotografia del padre, Harris e George, passa dall'etimologia dei due nomi al dizionario di cinema e quindi a Internet e George Harris, "l'attore britannico diventato famoso negli anni Ottanta grazie a piccoli ruoli in film di enorme successo" - e naturalmente non manca l'elenco dei titoli di questi film!

La lettura mi ha in qualche modo ricordato alcuni quadri in stile De Chirico, privi di quel senso di malinconia che li rende umani. O Gli indifferenti di Moravia, ma senza quella forza e quel senso di caduta.
È un romanzo a cui manca qualcosa per andare oltre l'esercizio estetico. E temo che quello che manca sia la vita, e in un romanzo che indaga un personaggio e le sue relazioni, non è una mancanza da poco.

Back to Italy

L'ultima settimana londinese è volata: il corso, Marketing, Management and Business Foundation + ripasso grammatica e conversazione in inglese, si è intensificato parecchio, perché bisognava recuperare alcune ore perse la settimana precedente, per cui l'orario è diventato dalle 10 di mattina alle 7 di sera.
Non restava molto tempo per gironzolare per Londra. O meglio, per gironzolare sì, per visitare cose no, visto che chiude tutto intorno alle 18.

Sono riuscita a infilare la Tate Modern in una pausa pranzo, e mi sono divertita tantissimo: noncredo di capire molto l'arte
contemporanea, ma mi mette di buon umore, mi diverte. Poi non arrivo a capire perché una tela arancione con un bordino ocra valga una cifra astronomica, ma non ha importanza.
Mi piace vederla, e mi sono piaciuti molto gli spazi della galleria, una ex centrale elettrica.All'ingresso ti accoglie l'opera di Ai Weiwei, l'artista cinese: si tratta di un tappeto immenso di semi di girasole, ma non semi veri, bensì riproduzioni in ceramica. Ovviamente non ci si può camminare sopra!

Ecco, la Tate è stata la mia tappa culturale della settimana. Settimana che ha visto un po' meno solo rispetto alla precedente, e infatti le foto sono un po' più cupe (un po' più londinesi!).
Venerdì è stata la mia ultima sera e, dopo una birra con un conterraneo che non vedevo da almeno 5 anni, ho avuto due guide d'eccezione: Francesco Dimitri e signora! Li ho raggiunti in una libreria esoterica, Treadwell. Uno spazio molto bello che probabilmente in Italia non potrebbe esistere. A piano terra c'è il negozio, quasi anonimo visto da fuori. Almeno, io mi aspettavo chissà che e stavo tirando dritta senza fermarmi al 33 di Store St. Sotto la libreria c'è una sala che viene utilizzata per workshop, conferenze, presentazioni... C'era la presentazione di un audiolibro dedicato ai 4 elementi. Date un'occhiata ai prossimi eventi!
Dopo la presentazione siamo andati a bere una birra lì vicino (sempre in zona Russell Sq., grosso modo).
E poi casa, valigia, nanne, sveglia, autobus, pullman, aereo. E Italia.

A proposito di aereo... piccola divagazione: mai più Ryanair! Ha delle politiche a dir poco discutibili, dà informazioni discordanti (il sito dice una cosa, in aeroporto un'altra: per esempio, il bagaglio a mano deve essere rigorosamente uno solo, ma in aeroporto - dice il sito - puoi comprare quello che vuoi e salire con quanti sacchetti vuoi... solo che se ci provi, augurati di aver spazio nel bagaglio a mano per infilare tutto perché in aeroporto la pensano in modo diverso!). Inoltre si distingue per la simpatia degli impiegati: uno ha preteso che infilassi nello zaino una barretta di cioccolato Cadbury perché per lui se no avevo "two bags"!
Eppure ormai Ryanair è una compagnia low cost per modo di dire. Se uno paga € 0,99 per il biglietto, può anche soprassedere su un servizio scadente. Ma visto che i biglietti non sono più così economici, che si paga un supplemento per qualsiasi cosa e che gira voce vogliano far pagare anche l'uso della toilette in aereo, mi chiedo se non tiri aria di crisi in casa Ryan!